lunedì 25 maggio 2009

Un po’ di Storia non fa mai male: I Fratelli Govoni

Ogni tanto, quando ho un po’ più di tempo a disposizione mi diletto a tirare fuori dall’armadio ben custodito di una memoria cancellata, gli scheletri dei compagnucci rossi, quelli che stanno sempre con il ditino puntato contro il vituperato fascismo e la sua incombente minaccia, che aleggia sulle nostre capocce, ogni qual volta il centro destra vince alle elezioni. Un pericolo inconsistente come sanno bene gli italiani (e lo dimostrano alle urne) al contrario del pericolo dell’estremismo rosso, che ha prodotto vittime innocenti fino a pochi anni or sono (i poveri Biagi e D’Antona).Questa si che è una minaccia reale, che si può toccare con mano ad ogni adunata del fior fiore della gioventù comunista “dura e pura”, sempre pronta ad usare violenza, sopraffazione e devastazione per esprimere il proprio personale concetto di democrazia. Ma torniamo ai Fratelli Govoni, erano sette come i più noti e compianti Fratelli Cervi, ma la loro terribile fine non ha mai avuto nessun riconoscimento storico, forse perché sono stati massacrati dai gloriosi partigiani rossi.
Dino, Emo, Augusto, Marino, Giuseppe, Primo e Ida Govoni sono stati assassinati dopo il 25 aprile 1945, quando già le autorità legittime avevano impartito l’ordine di rispettare i nemici. La loro colpa è stata quella di aver avuto “rapporti di cordialità ed ospitalità” con alcuni militi del fascio (di cui però non esistono prove) e per un paio di loro di aver risposto alla chiamata doverosa della R.S.I.Due, non tutti e sette. Due, non la madre di un bimbo di due mesi, com’era Ida Govoni che stava allattando il suo bambino, quando venne portata via. I Govoni erano originari di Pieve di Cento, a metà strada fra Bologna e Ferrara, nell’immediato periodo del dopo-liberazione in questa zona i “prelevati” furono 128, persone normali portate via e fatte sparire in fosse comuni.Nella macabra fossa di Argelato, sono stati rinvenuti diciassette cadaveri buttati alla rinfusa con un metro di terra addosso. Di questi sette erano i fratelli Govoni.Di diciassette solo uno porta segni di pallottole. Gli altri hanno tutti ossa spezzate e il cranio fracassato a colpi d’ascia, ossia prima torturati e poi ammazzati (non riesco nemmeno ad immaginare le sevizie che subì Ida Govoni).
Il primogenito si chiamava Dino, un artigiano falegname che si era iscritto al Partito fascista repubblichino, comportandosi sempre correttamente, tanto che nessuno, a guerra finita, aveva levato contro di lui la minima accusa. Dopo Dino veniva Marino era coniugato e aveva una figlia. Combattente d’Africa, aveva aderito dopo l’8 settembre alla R.S.I. Contro di lui non pendevano accuse di sorta. Veniva poi Emo, artigiano falegname che non aveva aderito alla R.S.I. e che non si era mai mosso dal paese. Viveva in casa con i genitori. Giuseppe, coniugato da poco tempo, faceva il contadino ed abitava nella casa paterna. Nemmeno lui era iscritto al P.F.R. Quando lo uccisero, era diventato padre da tre mesi. I sesto e il settimo dei fratelli Govoni erano Augusto e Primo, ambedue ancora celibi, contadini, e vivevano con i genitori. Non si erano mai interessati di politica. L’ultima nata si chiamava Ida,e aveva 20 anni. Si era sposata da un anno ed era diventata mamma solo da due mesi. Né lei né suo marito avevano aderito alla R.S.I.Si salvò solo la terzogenita Maria solo perché i partigiani non riuscirono a rintracciarla.
Per quest’orrendo crimine ci fu un processo che si concluse con quattro condanne all’ergastolo, la giustizia non poté fare il suo corso perché gli assassini “rossi”, così come in altri casi ( e come hanno continuato a fare), fuggirono oltre cortina e di loro si perse ogni traccia; successivamente, il crimine fu coperto da amnistia (ecco il vero motivo dell’amnistia!) e i carnefici ritornarono con tutti gli onori, a casa. Ancora adesso dopo 60 anni quegli assassini non hanno pagato per le loro colpe, né legalmente, né moralmente, né storicamente. E la vicenda dei fratelli Govoni che gettava una gran brutta luce sula “resistenza” fu censurata, una vicenda che va raccontata e divulgata, e non solo per dare alla loro morte iniqua, il sacrosanto risalto, ma per smascherare le menzogne che da 60 anni avvelenano il clima politico del nostro Paese.
Needle

venerdì 22 maggio 2009

Ecco l'articolo di Ida Magli a cui si fa riferimento

http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=352383

Società multietniche

L'articolo di Ida Magli, recensito da Elly, mette finalmente un pò di chiarezza sul fatto che le società multietniche, in realtà, non esistono, perchè non possono esistere. Non possono stare in piedi perchè una pacifica convivenza tra gruppi con retaggio etnico diverso, alla prova del tempo non possono reggere. Arriveranno ad uno scontro, ad una resa di conti, se nel frattempo non si sarà verificata un'amalgama perfetta tra le varie etnie; alla lunga, qualcuno dei gruppi etnici che fanno parte della cosiddetta società multietnica, quella che si sentirà più forte in tutti i sensi, vorrà prevalere sulle altre etnie, facendole soccombere o sparire. E' sempre stato così, nella storia millenaria del mondo; con buona pace di propugnatori, sognatori e cantori di questo genere di società idealizzate. Ida Magli analizza questo concetto, dimostrando perchè in passato siano sparite società "favolose" come quella egizia dei faraoni, o quella greca dei Fidia e dei Platone. In tempi relativamente più vicini a noi, l'omologo Marsh, nel Giardino delle Esperidi, narrando della regina Teodolinda e dei suoi sudditi, racconta di quel "glorioso" popolo dei Longobardi che si stava lentamente avviando alla completa integrazione con le popolazioni italiche, da loro sottomesse. Ma giunsero i Franchi, chiamati in suo soccorso dal Papa (tanto per stare in tema con l'articolo della Magli), che presero il sopravvento sui Longobardi, subentrando a loro. I Franchi smantellarono l'dea di quello stato italiano unitario, che stava entrando nella concezione mentale dei re Longobardi, che avevano preso a modello Costantinopoli. E il corso della storia italiana sarebbe stata ben diversa: non sappiamo se in meglio o in peggio; di certo credo non avremmo avuto quella struttura piramidale feudale che, per esempio, i siciliani solo di recente sono riusciti a scrollarsi di dosso.
E, come sappiamo dalla Storia, con l'avvento del feudalesimo, si era entrati in pieno nel Medio Evo.

martedì 19 maggio 2009

Etica &...Soria

"L'etica non si dovrebbe occupare degli affari del mondo, ma dovrebbe essere la condizione sostanziale del mondo." (Ludwig Joseph Wittgenstein)
L’Uomo è mistero, corpo e spirito con potenzialità infinite. Può entrare in contatto con la segreta energia dell’universo e sfruttarla per il proprio benessere. Può cercare Dio dentro di sé e attraverso l'illuminazione intraprendere il cammino della santità. Può cercare Dio fuori di sé abbandonandosi a Gesù. Può cercare soluzioni nella scienza, nello sviluppo tecnologico, risposte agli innumerevoli problemi di ricerca, di conoscenza.E' necessario che l'uomo, nella diversità delle culture, religioni evolute, politiche mondiali, sopra ogni cosa, ponga l'Etica, come ricerca dei criteri che consentano all'individuo di gestire la propria libertà e dei limiti entro cui la libertà si possa estendere: un' Etica alla cui base stia una nozione del bene e del male ed un sistema di valori validi per tutti.

venerdì 15 maggio 2009

The World Without US - Theatrical trailer

Immaginate che gli Usa abbiano un nuovo presidente. Si chiama Turner e promette di ritirare tutte le truppe americane nel mondo, concentrandosi solo sulle questioni di politica interna. Cosa accadrebbe?

martedì 12 maggio 2009

domenica 10 maggio 2009

La caduta dei Muri. Vent'anni dopo


Scritto da Bianca Valota sabato 09 maggio 2009
L'autrice con Lech WalesaPer gentile concessione dell'autrice, pubblichiamo ampi stralci dell'intervento della prof. Bianca Valota al Convegno internazionale La caduta dei Muri. Vent'anni dopo, svoltosi a Milano presso l'Università degli Studi il 7 e l'8 maggio scorsi.
La storia del prima, del durante e del dopo la caduta del muro di Berlino è un po' la storia degli antefatti e dell'esito più profondo della guerra fredda. Che come tutte le guerre ha anche un dopoguerra, particolarmente lungo perché la storia e la realtà impiegano molto tempo per imporsi alle ideologie.La prima fase di questa guerra, che tutti possiamo conoscere benissimo, purché abbiamo la pazienza di recuperare giornali e cronache di quegli anni, vedeva da un lato coloro che continuavano, anche dopo gli anni '60, a ritenere che i Paesi del socialismo reale rappresentassero un'avanguardia felice, verso la quale avremmo dovuto tendere tutti, almeno in Europa. Si leggevano i romanzi pedagogici di Anton S. Makarenko, si vedevano i documentari sulle realizzazioni del regime – ne ricordo uno sul canale Volga-Don, un'autentica catastrofe presentata come una vittoria dell'uomo e della scienza sulla Natura –; si organizzavano le discussioni sulla cinematografia celebrativa sovietica, magari dimenticando che qualche anno prima analoghe tendenze cinematografiche avevano caratterizzato altre culture totalitarie… In fondo questo era anche una conseguenza del desiderio di pace seguito alla guerra guerreggiata, alla volontà diffusa di trovare comunque una buona ragione per la convivenza pacifica. Certo, le denunce non mancavano, ma in fondo esse parlavano di un mondo comunque inaccessibile, e del quale una buona parte degli occidentali – inquadrati nei grandi partiti di sinistra – continuava a dare una descrizione mitica. Così in Occidente da parte dei giornali di sinistra – e in Italia in particolare dell'organo del Pci, l'Unità – fu ampiamente possibile presentare le rivolte di Poznań, di Budapest, di Praga come i rigurgiti dell'opposizione borghese, come una rivolta di facinorosi, senza per questo provocare più che la fuga dal partito di alcuni – più onesti degli altri.In fondo i Paesi dell'Europa Centro-Orientale, dopo che fino agli anni della guerra erano stati parte integrante del Continente, ora si erano allontanati, al punto di non interessare, di non essere visti come una parte di noi di cui preoccuparci. Una separazione in fondo recente, di breve durata, se proiettata nella prospettiva storica, in Occidente era stata assimilata profondamente e addirittura proiettata all'indietro, come se quella cesura provocata dalla seconda guerra mondiale fosse stata assai più antica e consolidata. In fondo la politica di Mosca e dei partiti comunisti orientali e occidentali cercava in ogni modo di ottenere proprio questo risultato. Non disturbate il manovratore, la cosa non vi riguarda.Con il progressivo disvelamento del grande inganno, con l'apertura al turismo e infine con la caduta del Muro di Berlino ci fu davvero un momento in cui, almeno fra i giovani e gli intellettuali dei paesi più tradizionalmente legati all'Est europeo, l'Europa apparve di nuovo una sola: piena di problemi, bisognosa di interventi a sostegno della ripresa, ma una. E in molti cercarono di contribuire alla crescita ed al recupero della cultura democratica in paesi in cui essa era stata duramente repressa dai regimi totalitari di sinistra. Ma molte cose non c'erano più: molti punti di riferimento del mondo germanico ad Est si erano svuotati (o erano stati svuotati), le parentele che spesso sostanziavano i rapporti umani fra i Paesi dell'ex-Impero asburgico erano ormai estinte, come quasi tutti estinti erano ormai, grazie anche alla politica di cinico disimpegno del governo italiano, i legami della nostra Penisola con l'Istria, la Dalmazia, l'altra sponda dell'Adriatico. E la progressiva "meridionalizzazione" della classe dirigente italiana (e il progressivo evolversi dei centri di interesse della medesima) aveva portato gli interessi e le direttrici culturali degli Italiani in altre direzioni. Quella rete fatta di uomini e di consanguineità che univa Est e Ovest era ormai stata interrotta. E questo è stato uno fra i più nefasti lasciti del comunismo e della sua politica, condotta di qua e di là del muro.La storiografia che ne è seguita è profondamente legata a questo confronto – o perlomeno si confronta in buona parte su questo tema –: da una parte alcuni hanno cercato di evidenziare e di ricostruire gli antichi legami, di riprendere vecchi filoni comuni di ricerca e di analisi, di riannodare rapporti culturali ed economici un tempo floridi, di "vedere" su un periodo più lungo, leggendo il periodo comunista come una tragica interruzione di un processo tutto sommato orientato verso una modernizzazione globale e verso una convergenza europea. Dall'altra parte, nella sinistra postcomunista, ci si è confrontati con un duplice problema: come disfarsi nella maniera più rapida e indolore possibile dei miti e delle vere e proprie falsificazioni che per quasi mezzo secolo avevano caratterizzato la storiografia e le analisi politiche della sinistra, quando si toccava il tema del mondo "oltre la cortina di ferro", e come graduare e pilotare l'acquisizione delle verità più scomode in modo tale che non ricadessero sulla testa di personalità politiche ancora sulla breccia, anche se magari nell'ambito di partiti che avevano assunto un nuovo nome. Ancora una volta il controllo della informazione si rivelava, per loro, assolutamente vitale. Ecco perché, in fondo, ad occuparsi della storia di quei paesi nelle nazioni occidentali troviamo tanti postcomunisti e tanti opportunisti, spesso privi delle necessarie competenze e spesso mancanti della necessaria "probità scientifica".Ma oltre il muro crollato restano oggi questi Paesi, vent'anni dopo, con i loro problemi vecchi e nuovi, e con l'esigenza di leggerne passato e presente di per sé, e non alla luce di tesi precostituite o di necessità di sopravvivenza politica. Un'esigenza che resta in tutta la sua attualità: la storiografia occidentale moderno-contemporanea sull'Europa Centro-Orientale è in fondo lo specchio più evidente di un confronto che per molti non ha ancora trovato pace.Per questo val la pena di soffermarsi, come abbiamo proposto in questo convegno, su questo ventennio. Come eravamo allora – parlo per quanto mi riguarda di noi "Occidentali", e Italiani in particolare – e come siamo oggi di fronte alla realtà di questa vicenda? Quali fra i progetti di allora, formulati di fronte ai muri appena crollati, non hanno retto alla prova dei tempi? Quali fatti imprevisti sono intervenuti in questi lustri? Quali altri erano previsti? E soprattutto, perché? Perché certi nostri ottimismi si sono rivelati tali, e certe cose che erano sembrate impossibili da cambiare, destinate a durare per secoli, crollarono in pochi anni, spesso in poche ore, proprio come il muro di Berlino?In quei giorni l'evento ebbe un effetto enorme su tutti noi: quali aspettative creava! Sorpresa, entusiasmo! Ricordo le riprese televisive in diretta di quel muro a Berlino, abbattuto a furor di popolo. Ricordo, pochi mesi dopo, l'ultimo regime – e uno dei peggiori, quello di Ceaușescu – caduto tra la gente festante, che ti accoglieva nell'inverno sulle strade disastrate mentre ti dirigevi verso la capitale cercando di portare qualche aiuto; e ti offriva ospitalità gratuita negli alberghi, ti salutava dai bordi delle strade. E ricordo, là, anche i progetti e le illusioni di tanti giovani e meno giovani di allora, che sembravano aver dimenticato l'esistenza degli Iliescu, i possibili colpi di coda, e le possibili riscosse delle nomenklature…E tuttavia un grande "fatto storico" si era potuto verificare: si poteva parlare di ricomposizione e di avvio della ricostruzione dell'Europa. Dopo quasi mezzo secolo si poteva parlare di crollo dell'impero sovietico – almeno nelle sue dimensioni tradizionali –; e di "liberazione dei popoli", almeno per coloro che hanno avuto la fortuna di rimanere al di qua della nuova Jalta che ahimè si viene ora delineando all'Est – ma di questo dovremo riparlare.Si era cominciato presto con un fortissimo entusiasmo da "neofiti" per "Gorby", che nei mesi precedenti si era fatto la fama di democratico e di riformatore inossidabile, e in fondo ci campa ancora – ma in Occidente, perché non direi proprio che all’interno della Russia la sua figura sia oggi molto popolare. Il che non significa togliere a questo personaggio i suoi indubbi meriti, quando lo si collochi in una prospettiva storica; significa solo cercare di essere il più possibile obiettivi ed equilibrati.Tutto questo, queste reazioni impreparate, entusiastiche ed a volte ingenue, in fondo sono un segno di quanto poco si sapesse davvero di quanto si era verificato all'Est, di quanto poco si fosse in grado – e spesso si volesse – scavare nella storia e nella psicologia collettiva non solo dell'Unione Sovietica, ma anche della Russia, dell'Impero zarista.Allora in realtà, con la complicità di una stampa ben poco preparata per ragioni sia culturali, sia politiche, si sono per mesi celebrate aperture più immaginate che reali. E questa ubriacatura, questa autoillusione collettiva veniva alimentata anche da chi cercava in questi segnali la prova che l'esperienza sovietica e il comunismo fossero almeno in parte "recuperabili", che in fondo esso fosse riformabile dal suo interno. Era una svolta fondamentale per la sopravvivenza dei grandi partiti comunisti occidentali; molti se ne erano resi conto, e quanto questo fosse vero si è visto appunto nel ventennio che è seguito, con la loro entrata in crisi definitiva.Certo, era vera la vittoria della democrazia come valore universale, con la fine di un'ideologia nefasta e del suo potere su tanti uomini. Ma si faceva anche sentire l'idea allettante di una "superiorità dell'Occidente": un Occidente che – ancora una volta – tendeva a sopravvalutarsi e a dimenticare i propri difetti, le proprie approssimazioni, le proprie responsabilità, la propria carenza di memoria storica. Era vero che molti Paesi potevano finalmente liberarsi. E questo, infine, fu davvero un lascito forte, fondamentale, di quegli anni. Ma non per tutti. Per comprendere questo, però, era necessario mettersi realmente in condizione di conoscere quei popoli, di conoscerli oggi e di ricollocarli nella storia europea – anche in quella di ieri. Rendersi conto di quanto la nostra civiltà comune sia stata nei secoli costruita da tutti gli Europei, da tutti noi insieme. Nell'entusiasmo, molti sembrarono allora essere convinti che la democrazia e la libertà – delle persone come delle nazioni – avrebbero potuto prevalere e conservarsi quasi naturalmente. Si ignoravano spesso i lasciti dei vecchi regimi, le strutture più o meno occulte (i militari, i servizi segreti, i grandi burocrati…), e il fatto che le "nuove" opposizioni democratiche che nei decenni precedenti avevano condotto una coraggiosa protesta di tipo prevalentemente "morale" si trovavano comunque ora a doversi confrontare con gli unici che durante il quasi mezzo secolo di regime comunista avevano potuto "far politica" – certo, nel modo caratteristico di un regime totalitario, ma sempre di "far politica" si trattava, ed era un'esperienza acquisita…. Si intuivano alcuni problemi: si vedeva ad esempio il vuoto legislativo in cui veniva liberato il "capitalismo" in quei paesi; ma non si era in grado di capire abbastanza come esso si stesse per combinare con una cultura piegata per decenni – talora, come in Russia, per secoli – alla passività ed alla mancanza di iniziativa delle masse, all'abitudine alla sopraffazione.In realtà già allora, ponendo mente a questi ultimi aspetti, gli scenari che si stavano aprendo non apparivano rosei per tutti: soprattutto per quegli "sconfitti" che un tempo si erano considerati i primi titolari dell'Impero: quel che restava dell'Unione Sovietica. Scrivevo proprio nel 1992 per un convegno organizzato sulla Nato, mentre ancora il siberiano Eltsin, tra slanci e pasticci, sembrava tuttavia tener aperta una pur tumultuosa via alla democratizzazione tentando di mettere a punto alcuni scenari possibili per il futuro della Russia:«1) Uno scenario purtroppo possibile è quello dell'involuzione autoritaria. In questa direzione si potrebbe assistere alla convergenza di due grandi "blocchi": A) da un lato l'eredità del comunismo: a cominciare dai vecchi apparati – di stato, di partito, dell'esercito, del Kgb, del complesso militar-industriale, delle fattorie collettive. La loro azione si può innestare su tendenze presenti nella psicologia collettiva di vasti strati della popolazione, delusi nelle speranze ingenuamente riposte nella possibilità di un rapido cambiamento, e sul persistere di logiche e strutture mentali resistenti al cambiamento e perfino incapaci di concepirlo concretamente; B) dall'altro l'emergere di un "nuovo" nazionalismo che rappresenta in fondo anche una sorta di grande metalinguaggio per esprimere la difesa esasperata della propria specificità, "classici" complessi di inferiorità-superiorità, il disagio di fronte alla grande sfida del progresso, la tendenza a scaricare le proprie responsabilità sull'altro, sul vicino, sul diverso – piuttosto che cercare in se stessi le cause delle difficoltà incombenti, e i possibili rimedi. […]. Si tratta di un nazionalismo che non risparmia certo gli stessi russi, che anzi fra loro si è potuto e si può incarnare volta a volta nell'imperialismo, nel panslavismo – o nel panortodossismo».E quello che vedevo allora, in una proiezione che alcuni considerarono pessimistica, sta in gran parte ritornando fra le constatazioni di oggi. In fondo, anche se la storia non serve per prevedere, essa consente – e consentiva anche in questo caso – di scartare almeno alcune delle ipotesi che si desidererebbe poter formulare per il futuro. Vent'anni dopo – oggi – la storia presenta il suo conto: il bilancio è largamente positivo per quanto riguarda la ricomposizione di gran parte dell'Europa – un obiettivo davvero epocale, che ben pochi si sarebbero attesi anche solo pochi anni prima della caduta del muro –; ma altri problemi sono sorti – o si sono incancreniti.La cosiddetta Europa centrale – ma anche nella scelta dei nomi che ogni paese si dà si nasconde il desiderio di affratellarsi o di distaccarsi da questo o da quel vicino – ha ormai assunto un ruolo importante e "tipico" nella discussione europea sulla politica estera, ben conoscendo atteggiamenti e pulsioni dei nostri interlocutori a Oriente. E il processo di crescita sta ormai coinvolgendo tutti i Paesi dell'Est europeo.La Russia sta cercando di ricostruire l'Impero, secondo la sua antica tradizione, e riprende una delle sue classiche direttrici: la sua politica verso Ovest e Sud-Ovest. La crisi produttiva e industriale alla quale non ha saputo far fronte continua e si sta aggravando, e la sua leadership è costretta a comportarsi ed a ragionare come un paese produttore di materie prime, con le quali pagare i consumi interni. Insomma, come un paese arretrato.Ritroviamo la tendenza russa alla ricostruzione degli stati cuscinetto, al ricatto energetico, a promuovere e sostenere governi fantoccio funzionali a questi disegni e a questi progetti – le attuali tensioni in Moldova, o in Ucraina, sono solo alcuni dei casi che si potrebbero citare. Così – ma questo è un argomento che meriterebbe un altro congresso – si stanno in qualche modo creando i confini di una nuova Jalta, nuovi muri, oltre i quali sta diventando sempre più forte l'idea che la democrazia e la libertà non abbiano diritto di entrare.Ma in fondo uno dei migliori alleati della Russia in questa sua opera di normalizzazione e di ricomposizione imperiale è proprio il desiderio spasmodico di molti governi occidentali di ricostruire una situazione di equilibrio – come quella alla quale ci aveva abituati un cinquantennio di equilibrio atomico. E la preoccupazione per il terrorismo musulmano, la paura della crescita selvaggia cinese, l'angoscia per la crisi che ha colpito tutti – ma le democrazie sono i sistemi più sensibili alle critiche ed al malcontento – fa sì che regimi autoritari e antidemocratici come quello di Putin finiscano per trovare sostegno e conforto.Certo, si accetta con fatica e con sgomento il permanere di una situazione di crisi della quale è difficile intravvedere una soluzione equilibrata; ma con altrettanta facilità procede negli uomini l'assuefazione alle situazioni risolte, a quelle che ci offrono i loro vantaggi senza che ci dobbiamo ricordare ogni giorno i problemi, i timori e le difficoltà del tempo passato. Così le città dei paesi dell'Est entrati nell'Unione possono ormai apparire come un mondo riacquisito nella nostra coscienza di europei, paesi per i quali i problemi non sono troppo diversi da quelli che si hanno con tutti gli altri membri comunitari. È in ogni caso una conquista enorme che, come tutte le cose belle, crea una rapida assuefazione. E dunque consentitemi di darli per acquisiti – o di considerare il processo di reintegrazione in corso già abbastanza avanzato – anche in questo mio breve excursus. E tuttavia penso che un problema per il futuro sia, ancora una volta, quello dei rapporti con la Russia, della difesa dei paesi più vicini e memori del proprio passato di paese satellite: un problema che in Europa sembra in certi casi riguardare solo… gli ex partner del patto di Varsavia, mentre in gioco è il futuro di tutti noi.Ma non è dappertutto così: restano nel Balcani le macerie di un confronto durato per tutto il "secolo breve" di Hobsbawn, ed esploso qui violentemente con il crollo dello Stato di Tito. Da tempo Est ed Ovest vi si combattono per procura per assicurarsi una più ampia area di influenza; ma ora vi si è fatto assai più presente e pericoloso il "terzo incomodo" del mondo fondamentalista musulmano, che nel frattempo è intervenuto prepotentemente e sanguinosamente sullo scacchiere internazionale. Qui davvero siamo ben lungi dal poter dire che questi vent'anni siano bastati per poter intravvedere un nuovo equilibrio stabile. Anzi. Tanto più che vecchi nazionalismi ancora presenti anche in paesi dell'Unione Europea come la Grecia finiscono per rendere l'azione comunitaria ancor meno efficace e incisiva di quanto potrebbe essere.Insomma, anche la storia non facit saltus. In fondo, del resto, la "liberazione" di tanta parte d'Europa può davvero essere vista come un grande balzo, ma non può essere considerata un fatto realizzato in pochi mesi e concluso. Senza poi dimenticare che i Balcani restano una grande ferita europea, per la quale ancora non abbiamo trovato rimedio, e in cui anche le convivenza controllate e garantite da ingenti forze militari internazionali non sembrano essere riuscite a modificare di molto i rapporti di concorrenza e di avversione fra le varie etnie in gioco.Ma ci sono anche altri problemi: noi non ci siamo messi in condizione di sottrarci al ricatto di Putin, un po' perché un ambientalismo spesso miope teme in Italia la ricerca di alternative realistiche al petrolio; un po' per radicato antiamericanismo, per rissosità interna all'Europa; un po' anche per un filone antico nella nostra politica estera, che ci ha visto sempre più attenti alla Russia, per un supposto "realismo", che ai paesi della cosiddetta Zwischen Europa: quei paesi che si trovano scomodamente collocati fra i Grandi Russi e i Grandi Tedeschi, e che pongono problemi visti spesso come "minori", fastidiosi, e difficili da risolvere…).I post-comunisti italiani ed europei, poi, sono di fatto per tanti versi "ricattabili" dalla Russia per i vecchi legami e per ciò che contengono gli archivi dell'Est; e da noi anche un Berlusconi amico di Putin coltiva il progetto di affermarsi come mediatore tra Russia e Ovest.Negli ultimi tempi, poi, stanno crescendo i sospetti verso i Paesi entrati nell'Unione Europea, perché prima essi si adeguavano; prima pensavamo di poter contenere il loro ruolo e i loro orientamenti, perché li ritenevamo dipendenti da noi e a noi "grati"; mentre ora hanno una loro politica – naturalmente, soprattutto nei riguardi di quella Russia che tradizionalmente conoscono molto meglio di noi, e che nell'ultimo mezzo secolo hanno avuto – ahimè – occasione di conoscere ancor meglio. Ora temiamo la concorrenza dell'"idraulico polacco" e l'economia in crisi accentua gelosie e perplessità verso i più poveri – e indurrebbe a rivedere gli atteggiamenti verso Mosca, creando attriti con i nuovi entrati. E così lo slancio di costruzione dell'Europa, che per certi aspetti era un po', sia pur brevemente, assomigliato allo slancio risorgimentale, si è per molti versi smorzato di fronte a una Costituzione europea che è lunga come un libro, alla eccessiva burocratizzazione – ed al ruolo "ingombrante" che hanno teso ad assumere i paesi più "forti" (Germania, Gran Bretagna, Francia). Non Europa dei popoli, ma Europa della burocrazia.Così, tuttavia, si rischia spesso di dimenticare il bicchiere "mezzo pieno" e il fatto che per la prima volta, pur fra mille difficoltà, gran parte del nostro Continente è riuscita a creare una struttura comune. La crisi che ci ha colto potrebbe, del resto, anche offrire una buona occasione per restituire al popolo, quello che riuscì a cogliere di sorpresa i regimi "mummificati" attestati per decenni sui loro privilegi, quello che salì sul muro di Berlino in quei giorni di ottobre, quello che si avventurava in Occidente attraverso l'Ungheria, la sua piena sovranità sul Continente in cui vive ed ha costruito una storia per tanti versi così felicemente ed incredibilmente ricca. Sono questi popoli che debbono trovare la forza per costruire un'Europa dei cittadini…Certo, le previsioni fatte in quei mesi in Occidente, e in Italia in particolare, viste oggi appaiono malate di un eccessivo ottimismo e di un tremendo semplicismo, che deriva probabilmente soprattutto dalla conoscenza sommaria e superficiale dei paesi dell'ex patto di Varsavia e, per altre ragioni, dalla sopravvalutazione – ma anche dalla sottovalutazione – della Russia e del suo ruolo. E si era anche sopravvalutata la capacità di autogenerazione della democrazia, ove dovesse partire da una base come quella russa, con un mondo ortodosso tradizionalmente "schiacciato" sull'autorità politica, spesso avvezzo al rigetto di un denaro visto ben più come "sterco del diavolo" che quale fattore di crescita economica e di sviluppo, con l'antica abitudine al centralismo, all'autoritarismo, ad un nazionalismo orgoglioso, imperiale e imperioso, prepotente anche se straccione: cannoni e non burro! Per lo stesso motivo, ecco la nostra sottovalutazione di un antico fattore come la tradizionale capacità del popolo russo di "rinunciare a star bene" pur di rivestire un nuovo ruolo mondiale, della ferrea determinazione a ricostruire l'impero che caratterizza la sua nomenclatura, del ruolo "perenne" svolto dalle polizie segrete e dall'esercito.Morale: E' necessario porsi realmente in condizione di conoscere tutti questi popoli, di conoscerli oggi e di ricollocarli nella storia europea – anche in quella di ieri. Rendersi conto di quanto la nostra civiltà comune sia stata costruita da tutti noi insieme. La insufficiente conoscenza ci ha anche impedito di interpretare in modo soddisfacente i diversi aspetti di questo cambiamento vorticoso, di comprendere e prevenire, per quanto possibile, i pericoli che si sarebbero palesati solo negli anni successivi. Mi sembra, del resto, difficile immaginare uno scenario che, sia pur sulla base di una miglior conoscenza di quei popoli, possa indicare una soluzione serena e pacifica per il dramma balcanico. Ma in fondo bisogna pur dirlo: quella stessa insufficiente conoscenza ha in qualche modo potuto contribuire a suo tempo ad un ottimismo e ad uno slancio senza il quale forse non ci saremmo imbarcati in certe operazioni: quando si parlò di riunificazione della Germania, Andreotti ed altri in Europa, proprio sulla base della mancanza di questo slancio, e per un loro radicato e miope conservatorismo, le erano contrari, mentre erano favorevoli alla conservazione "in eterno" del muro. E la stessa scelta dei tempi – quella che venne e viene a volte definita "fretta" nella ricostruzione dell'Europa –, è forse uno dei portati di questa "felix culpa", se così posso esprimermi. Rallegriamocene e cerchiamo di guardare avanti con maggiore consapevolezza e conoscenza del Continente, ma con lo stesso entusiasmo, senza il quale si costruisce l'Europa dei burocrati e dei portaborse, e non una casa comune libera e forte.

sabato 9 maggio 2009

Da e di Marco De Turris

domenica 14 settembre 2008
Poche considerazioni sul fascismo
Che cos’è il peronismo? Nessuno, né storici né pensatori politici, anzi nemmeno i peronisti stessi, è mai riuscito a fornire una definizione di questo movimento politico argentino. In esso hanno convissuto e convivono comunisti e fascisti, simpatizzanti di Castro ed ammiratori di Hitler, massoni anticlericali e cattolici integralisti. E’ una corrente nata nelle forze armate ed il cui massimo rappresentante era un militare, ma che ha trovato proprio nell’esercito i suoi maggiori oppositori. E’ un’ideologia normalmente catalogata quale “di destra”, ma che ha avuto ed ha tuttora l’appoggio dei maggiori sindacati argentini.
Il peronismo, sin dalla figura del suo fondatore Peròn, è però, da tutti, giustamente considerato un movimento analogo al fascismo italiano ed anzi largamente ispirato proprio a quest’ultimo.
In modo analogo, nessuno è mai riuscito a dare una definizione del fascismo italiano, fenomeno storico il quale è paragonabile ad una galassia, in cui, all’interno d’un comune “campo di forza”, hanno gravitato costellazioni di pensatori, uomini politici, gruppi sociali diversissimi se non contrastanti.
L’argomento sarebbe molto lungo da affrontare, per cui mi riservo di fornire alcune indicazioni di volta in volta. Ora intendo ricordare uno degli aspetti più singolari della diversificazione interna al “fascismo”, ovvero quella regionale.
Benito Mussolini ed i suoi primi sodali erano notoriamente romagnoli, però il fascismo come movimento organizzato nacque a Milano, si diffuse nelle campagne della pianura padana, poi conquistò le città del nord, infine giunse al sud. Questa dinamica è conosciuta, mentre invece si sono meno evidenziate le diversità interne.
Il fascismo romagnolo aveva un’anima repubblicana (Balbo in primis), che oscillava fra le eredità del socialismo, o persino dell’anarchia, e quelle del nazionalismo, ben rappresentate da Farinacci. Il fascismo milanese era invece segnato da connotati maggiormente intellettuali e combattentistici, i quali bramavano “modernizzare” l’Italia, coniugando istanze socialiste, tecnocrazia, nazionalismo. Decisamente monarchico e filo-clericale il fascismo piemontese, con numerosi militari fra i suoi aderenti, però singolarmente abbastanza anti-capitalistico.
Un caso a sé invece era il fascismo veneziano, assai importante, ma pochissimo studiato. Volpi di Misurata ed i suoi amici erano massoni e legati all’ambiente dell’alta finanza, e rappresentavano in un movimento teoricamente popolare, con un’anima in fondo anti-borghese ed anti-moderna, idee prettamente liberali (ma elitarie), liberiste e, come accade solitamente in questi casi, fortemente anglofile.
Il fascismo toscano era forse quello più duro e battagliero, tanto che fra i maggiori gerarchi della RSI c’erano moltissimi Toscani, al punto che la repubblica di Salò fu soprannominata ironicamente “granducato di Toscana”. Esso era un fascismo assieme guerriero e rivoluzionario, ostile al socialismo come al liberalismo, e s’ispirava a modelli totalitari più che autoritari. Inoltre, molti fra i maggiori esponenti intellettuali del fascismo erano Toscani.
Il fascismo romano aveva due anime. La prima era quella dell’ “aristocrazia nera” romana, nera non per l’adesione al fascismo, bensì per essere da secoli ultra-cattolica e clericale. Essa non era in verità nazionalista, essendo l’Unità d’Italia raggiunta con la breccia di Porta Pia, e non approvava assolutamente la modernità in nessuno dei suoi aspetti. La sua ideologia era quella dell’ultramontanismo cattolico, quindi aveva nel Papa, e non nel Duce o nel Re il suo punto di riferimento. Aveva poi a Roma il suo epicentro il tradizionalismo di natura “pagana” (Evola ed i suoi collaboratori ed amici), numericamente assai ridotto, però di grande importanza culturale, persino più reazionario di quello cattolico, però certo assai diverso, sebbene punti di contatto e di reciproca simpatia non mancassero fra i due gruppi. Evola anzi era egli stesso un membro della nobiltà romana.Infine, il fascismo meridionale sorto per ultimo fu in verità l’adesione da parte dei vecchi ceti liberali del Sud alla nuova ideologia fascista, non tanto per convinzione, quanto per interesse. Gran parte di questi notabili locali poi cambiarono nuovamente cavallo, divenendo demo-cristiani.
Ribadisco che non si deve parlare di "fascismo", bensì di "fascismi" al plurale, di cui quello di Salò fu soltanto l'ultima, ed assai poco rappresentativa, manifestazione.
Pubblicato da Marco De Turris a 18.00